19 dicembre 2005
Cristianesimo e islam nella storia
ROMA,
19 dicembre 2005 – Nello stesso giorno in cui in Vaticano è stato reso
pubblico il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata della Pace del
prossimo 1 gennaio, il cardinale segretario di stato Angelo Sodano ha
patrocinato alla Pontificia Università Lateranense – di cui è gran
cancelliere il vicario del papa cardinale Camillo Ruini – un incontro
focalizzato proprio su un tema cruciale per la geopolitica della Chiesa:
“Cristianesimo e islam, ieri e oggi”. Nel suo messaggio, Benedetto
XVI ha indicato nel “nichilismo” e nel “fanatismo religioso” le due
matrici profonde del terrorismo islamista. Al Laterano, invece,
nell’incontro del 13 dicembre, l’analisi si è concentrata soprattutto
sulla storia del rapporto tra cristianesimo e islam. Lo spunto è stato
il quinto centenario della nascita di san Pio V, il papa della battaglia
di Lepanto del 1571 nella quale una lega di stati cristiani d’Europa
inflisse alla flotta turca una decisiva sconfitta.
A svolgere il
tema è stato un autorevole specialista di storia della Chiesa,
monsignor Walter Brandmüller, presidente del Pontificio Comitato di
Scienze Storiche.
Letta alla presenza del cardinale Sodano, la
sua relazione ha rappresentato il punto di vista attuale della Santa
Sede sulla questione: un punto di vista sicuramente meno remissivo di
quello prevalente durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Ecco l'intervento _____
Cristianesimo e islam nella storia
di Walter Brandmüller
Affronterò
il tema cristianesimo e islam limitandomi a una breve presentazione dei
fatti storici, senza entrare nello specifico del dialogo religioso e
teologico. Ciò mi sembra utile poiché il quinto centenario della nascita
di Pio V è stato celebrato un po’ in sordina, soprattutto nell’ambito
della cultura accademica. Il vincitore di Lepanto nel 1571, il papa che
ha avuto il coraggio e l’energia di costruire un’alleanza di quasi tutti
i regni cristiani contro l’impero ottomano – che con la sua avanzata
stava minacciando l’Europa e che, nei Balcani, già aveva installato il
suo dominio – oggi, proprio a causa della ripresa infelice delle
ostilità fra i due mondi – cioè da una parte il mondo che è stato
cristiano e che ancora in parte lo è, e dall’altra il mondo islamico – a
molti sembra una presenza ingombrante, che è meglio lasciare in ombra.
Una
cosiddetta laicità che vorrebbe mettere sotto accusa tutte le religioni
monoteiste tacciandole di fondamentalismo, oppure che esalta il dialogo
cancellando le diversità, vuole dimenticare il millenario conflitto che
ha contrapposto le due comunità religiose, e soprattutto il pontefice
romano che ha voluto e saputo bloccare l’avanzata islamica, salvando
così la civiltà cristiana.
Anche se si tratta di due religioni
monoteiste che tra l’altro condividono, sia pure in misura diversa, la
tradizione ebraica – uno specialista come Samir Khalil Samir sottolinea
come prima di Maometto anche gli ebrei e i cristiani arabi chiamassero
il loro Dio con il nome di Allah – tra cristianesimo e islamismo le
differenze sono molte, e sono fondamentali.
Fin dalle origini, vi era differenza tra cristiani e musulmani nel modo di concepire la conversione e nell’uso della violenza.
Per
i cristiani la conversione doveva essere volontaria e individuale,
ottenuta principalmente attraverso la predicazione e l’esempio, e in
questo modo infatti si realizzò nei primi secoli la diffusione del
cristianesimo. Ovviamente, va sin d’ora riconosciuto che questa
concezione del cristianesimo primitivo ha subito in epoca posteriore un
cambiamento, da collegarsi con il diffondersi, anche nella cultura
occidentale, di uno spirito d’intolleranza in materia di religione. Lo
stesso Giovanni Paolo II ha riconosciuto che, sotto questo profilo, i
figli della Chiesa “non possono non tornare con animo aperto al
pentimento […] all’acquiescenza manifestata tra Medio Evo e prima età
moderna a metodi di intolleranza” (Tertio Millennio Adveniente, 35).
Da
parte musulmana, invece, sin dai primissimi tempi, e cioè durante la
vita di Maometto, la conversione è stata imposta con le armi.
L’espansione e l’estensione dell’area di influenza dell’islam sono
infatti avvenute attraverso le guerre con le tribù che non accettavano
pacificamente la conversione, e questa andava di pari passo con la
sottomissione all’autorità politica islamica. L’islamismo, a differenza
del cristianesimo, esprime un progetto globale, al tempo stesso
religioso, culturale, sociale e politico. Mentre infatti il
cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le
persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al
dominio romano – e comunque introducendo una netta separazione della
sfera spirituale da quella politica – l’islam si è imposto con la forza
di una dominazione politica.
Non stupisce quindi che l’uso della
violenza occupi un posto centrale nella tradizione islamica, come
rivela il ricorso frequente del termine jihad in moltissimi testi. Anche
se alcuni studiosi, soprattutto occidentali, sostengono che con jihad
si deve intendere non necessariamente la guerra, ma piuttosto la lotta
spirituale, lo sforzo interiore, ancora Samir Khalil Samir ha chiarito
che l’uso di questo termine nella tradizione islamica – compreso quello
che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco, e indica la guerra
in nome di Dio per difendere l’islam, che è un obbligo per i musulmani
maschi adulti. Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra
santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica
non dice la verità, e la storia mostra come purtroppo la violenza abbia
caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo
stesso Maometto a organizzare e a condurre sistematicamente le razzie
nei confronti delle tribù che non volevano convertirsi e accettare il
suo dominio, sottomettendo in questo modo, una dopo l’altra, le tribù
arabe. Naturalmente, bisogna anche dire che all’epoca di Maometto le
guerre facevano parte della cultura beduina e che nessuno vi trovava
nulla di riprovevole.
Anche la versione che oggi i musulmani –
seguiti in questo da molti storici occidentali – cercano di accreditare
sulle crociate, non risponde alla realtà storica.
Secondo questa
rappresentazione i cristiani occidentali si sarebbero presentati come
invasori in un paese pacifico e rispettoso delle religioni diverse –
cioè la Terrasanta, che allora faceva parte della Siria – utilizzando
motivi religiosi per mascherare pretese imperialiste e interessi
economici.
L’idea delle crociate nacque invece soprattutto come
reazione alle misure che il califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah prese
contro i cristiani di Egitto e di Siria. Nel 1008 al-Hakim abolì la
festività delle Palme e l’anno successivo ordinò di punire i cristiani e
di requisire ogni loro bene. Nello stesso 1009 saccheggiò e fece
demolire la chiesa che al Cairo era dedicata a Maria e non impedì la
profanazione dei sepolcri cristiani che la circondavano e il sacco di
altre chiese della città. Nello stesso anno si ebbe quello che fu
sicuramente l’episodio più grave: la distruzione a Gerusalemme della
basilica costantiniana della Resurrezione, conosciuta come il Santo
Sepolcro. Le cronache del tempo dicono che egli aveva ordinato “di farvi
sparire qualsiasi simbolo di fede cristiana e di provvedere a portar
via ogni reliquia ed oggetto di venerazione”. La basilica quindi fu
completamente abbattuta, e Ibn Abi Zahir cercò in ogni modo di rimuovere
il sepolcro di Cristo e di farne sparire ogni traccia.
Oggi, in
molti ambienti intellettuali, si parla spesso della tolleranza
religiosa esercitata durante molti secoli da parte del potere politico
islamico perché – mentre nei confronti delle popolazioni pagane valeva
il detto “abbraccia l’islam e avrai la vita salva” e i pagani che non si
convertivano venivano uccisi – i “popoli del libro”, cioè ebrei e
cristiani, potevano continuare a praticare il loro culto.
Nella
realtà, la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei
potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e
una situazione di umiliazione, aggravata dall’obbligo di pagare imposte
sempre più pesanti. Non c’è da stupirsi, quindi, che la maggioranza dei
cristiani, anche se non costretti con la forza, a causa delle continue
pressioni, economiche e sociali, si siano convertiti all’islam,
provocando la totale scomparsa di una cristianità fiorente per oltre
mezzo millennio come quella dell’Africa romana, la terra di Tertulliano,
san Cipriano, Ticonio e soprattutto sant’Agostino.
Ma la differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione di essere umano.
Lo
dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la
dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel
1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che
contravvenivano alla legge coranica, cioè in pratica tutte. Dal punto di
vista storico bisogna dunque riconoscere che la dichiarazione dei
diritti dell’uomo è un frutto culturale del mondo cristiano, anche se si
tratta di norme “universali”, in quanto valide per tutti. Nella
tradizione islamica, infatti, non esiste il concetto di uguaglianza di
tutti gli esseri umani, né di conseguenza quello di dignità di ogni vita
umana. La sharia è fondata su una triplice disuguaglianza: tra uomo e
donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e schiavo. In sostanza
l’essere umano di sesso maschile viene considerato pienamente titolare
di diritti e di doveri solo in quanto appartenente alla comunità
islamica: chi si converte a un’altra religione o diventa ateo viene
considerato un traditore, passibile della pena di morte o, come minimo,
della perdita di tutti i diritti.
La più irrevocabile di queste
disuguaglianze è quella tra uomo e donna, perché le altre possono essere
superate – lo schiavo con la liberazione, il non musulmano con la
conversione all’islam – mentre l’inferiorità della donna è irrimediabile
in quanto stabilita da Dio stesso. Nella tradizione islamica il marito
gode di una autorità pressoché assoluta sulla moglie: mentre all’uomo è
consentita la poligamia, la donna non può avere più di un marito, non
può sposare un uomo di altra fede, può essere ripudiata dal marito, non
ha alcun diritto sulla prole in caso di divorzio, è penalizzata nella
divisione ereditaria e dal punto di vista giuridico la sua testimonianza
vale la metà di quella di un uomo.
Se dunque l’islam implicava
ed implica non solo un’adesione religiosa, ma tutto un modo di vivere,
sancito anche a livello politico – modo di vivere che naturalmente
comporta e prescrive come agire con gli altri popoli, come comportarsi
in questioni di guerra e di pace, come avere relazione con gli stranieri
– è molto facile comprendere come la vittoria di Lepanto abbia
garantito all’Occidente la possibilità di sviluppare la sua cultura di
rispetto per l’essere umano, al quale viene garantita uguale dignità in
ogni condizione.
Se questa caratterizzazione dell’islam è
destinata in futuro a rimanere immutata, come è accaduto finora, non può
che risultare difficile la convivenza con quanti non appartengono alla
comunità musulmana: in un paese islamico, infatti, il non musulmano si
dovrà sottomettere al sistema islamico, se non vuole vivere in una
situazione di sostanziale intolleranza.
Viceversa, proprio a
causa di questa concezione complessiva di religione e autorità politica,
il musulmano avrà molte difficoltà ad adattarsi alle leggi civili nei
paesi non islamici, ritenendole qualcosa di estraneo alla sua formazione
e ai dettami della sua religione. Bisogna forse chiedersi se le
comprovate difficoltà di persone provenienti dal mondo islamico a
integrarsi nella vita sociale e culturale dell’Occidente non trovino una
delle spiegazioni in questa problematica.
Dobbiamo poi anche
riconoscere il diritto naturale di ogni società di difendere la propria
identità culturale, religiosa e politica. Mi sembra che Pio V abbia
fatto proprio questo.
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| inviato da il 19/12/2005 alle 16:29 | |
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