Le Marche sono una regione poco conosciuta da molti italiani. Territorio di transito per la dorsale adriatica del sud, fuori mano per l'Italia insulare e per le regioni tirreniche, con la concorrenza di Toscana e Umbria per coloro che vogliono visitare l'Italia Centrale. Eppure è una regione che ha dato i natali a Leopardi, a Raffaello, a Pergolesi, Spontini, Rossini, che ha splendide città d'arte come Urbino, Ascoli, Macerata, tanti piccoli borghi di cui è rimasto intatto l'impianto medioevale. Le mie radici sono lì, in quelle colline che digradano dolcemente verso il mare.
Tanto tempo fa iniziai a scrivere un qualcosa che titolai provvisoriamente "Romanzo popolare". Iniziava con un "incipit". Ne ho scritti alcuni capitoli, poi è rimasto lì e lì penso resterà. Ne pubblico il primo capitolo perchè penso possa rendere abbastanza bene "lo spirito", "the soul" della regione. Per me è un viaggio della memoria, per chi non conosce la regione potrebbe essere lo spunto per visitarla.
Le
colline marchigiane, per chi le vede per la prima volta,danno un senso di
struggente languore, appena disegnate come sono, con il loro leggero innalzarsi
verso l’interno, con i loro colori tenui, quasi senza alberi, disegnate nei
contorni che dividono le proprietà. Manca il verde marcato dell’Umbria, non si
ritrova l’opulenza della campagna toscana, qui è tutto più lieve, più chiaro,
più morbido, più accennato, meno definito. E nelle Marche comincia il percorso,
in un piccolo paese seduto su una di quelle colline, negli anni e nei mesi
della ritrovata speranza dopo i lutti e le angosce della guerra, nella pace
serena del borgo ancora non ferito dai rumori invadenti dei motori , con l’aria
ancora impregnata dei profumi e degli odori delle stagioni. Gli effluvi
intensi delle rose e dei lillà in
maggio, il sentore del mosto in autunno, le castagne arrostite in inverno, il
profumo del grano appena mietuto in estate e la presenza del fieno sempre,
talora secco, talora appena falciato e sempre l’odore unico del pane appena
sfornato. E i grilli in estate di giorno, e le lucciole di notte, e le voci che
escono dalle finestre aperte delle case, alcune a spingersi fino alle romanze
d’opera più conosciute, e gli artigiani, il ciabattino con i colpi
inconfondibili di martello sul cuoio, il fabbro con la bombola di
acetilene in funzione, il muratore
sempre accompagnato da un manovale con cazzuola e secchio. E il senso della
percezione del tempo che scorre, le giornate che sembra non finiscano mai, in
estate, ed il ritorno puntuale delle rondini in marzo e la neve ad accompagnare
la messa di mezzanotte a Natale, e il freddo pungente di fine gennaio.
In
quel borgo, ora lontano, quasi estraneo
per aver perduto l’innocenza di un tempo, o forse perché l’innocenza l’hanno
perduta gli occhi che guardano, l’Italia della seconda metà degli anni ’40
cercava di ritrovare,lì come altrove, il senso del percorso dopo la parentesi
populista e la tragedia della guerra. A pensarci bene era la prima volta che
nel Paese si respirava l’aria della democrazia, pur nella contrapposizione
forte tra coloro che vedevano imminente
l’inverarsi del sole dell’avvenire e il mondo che trovava ancora nella chiesa
un punto di riferimento non messo in discussione, protettivo e consolatorio
come le mamme nei confronti dei loro cuccioli. E in mezzo i “benpensanti”, non disposti a
confondersi con le masse ma ostili senza tentennamenti ai pericoli, così erano
percepiti, che potevano venire dalle novità provenienti da est.
Benvenuti nelle Marche
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