Due giorni fa, il 26, ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani. Son passati cinquanta anni e mi vengono i brividi. L'anniversario è passato praticamente inosservato e sono certo che siano ben pochi gli Italiani fino ai cinquanta anni che sappiano chi fosse. Più conosciuto dalla mia generazione, che si avvia ai settanta, anche se limitatamente alle persone che hanno fatto un certo percorso di studi e si interrogavano negli anni sessanta su passato, presente e futuro del nostro Paese.
Eppure Don Milani è stato un personaggio importante di quegli anni, fortemente osteggiato da taluni ambienti, quasi santificato da altri. La sua scuola di Barbiana e il libro "Lettere ad una professoressa" che ne ripercorreva l'esperienza furono al centro di molte attenzioni, giustamente perchè sollecitavano l'interesse intorno a problematiche importanti dei processi educativi. Ho rintracciato in fondo alla nostra libreria, in seconda fila, "Lettere ad una professoressa", la copia che aveva acquistato mia moglie (al tempo non ci conoscevamo), la mia chissà che fine ha fatto. L'ho sfogliata con commozione e tenerezza, ho riletto alcuni punti, ho rivissuto antichi vissuti. Non voglio indulgere alla nostalgia, ma sottolineare alcuni punti fermi del pensiero di Don Milani, prete fiorentino di carattere, scomodo per la gerarchia del tempo, inviso agli ambienti conservatori, icona negli anni sessanta dei cattolici aperti al sociale (cattocomunisti li avrebbe definiti più tardi tra gli altri Silvio Berlusconi che si è sempre caratterizzato per i suoi schemi mentali semplici, semplicistici e semplificanti).
Brevissime note biografiche. Nato nel 23 da una famiglia altoborghese agnostica, trovò la sua collocazione esistenziale nel pensiero e nella fede cattolica. Ordinato sacerdote nel '47, esercitò il suo ministero fino al Dicembre 1954 a Calenzano.Entrato progressivamente in frizione con la curia di Firenze, fu trasferito, di fatto per punizione, a Barbiana, sperduta e piccolissima frazione di montagna del comune di Vicchio del Mugello.
E a Barbiana iniziò l'esperienza della scuola popolare a tempo pieno e la redazione collettiva di "Lettere ad una professoressa" che denunciava un sistema scolastico ed un medoto didattico che favorivano l'educazione delle classi ricche e condannavano i figli di operai, contadini e classi subalterne ad un quasi ineluttabile destino di subalternità. Perché, bisogna ricordarlo, fino alla entrata in vigore della riforma della scuola media unificata - nel 63 - la divisione per classi sociali cominciava alle elementari. Coloro che abitavano in campagna frequentavano le multiclassi che non potevano certo offrire standard elevati. Al momento della licenza elementare la biforcazione era evidente. Per "andare alle medie" bisognava fare l'esame di ammissione. Le famiglie meno abbienti non ci pensavano nemmeno: i loro figli andavano "all'avviamento professionale" e ogni altra strada si chiudeva. Chi "faceva l'esame d'ammissione" si trovava al bivio al conseguimento della licenza media inferiore ed anche qui le strade erano abbastanza definite. Borghesia media e alta e figli di professionisti andavano al classico, preferito allo scientifico perché la conoscenza delle civiltà greca e latina veniva considerata superiore, non si sa perché, alla conoscenza della doppia elica del DNA o dei buchi neri. I ceti impiegatizi iscrivevano i loro figli a corsi di studio che dessero la possibilità di avere un diploma spendibile immediatamente sul mercato del lavoro (ragioniere, geometra, perito industriale) mentre una fascia più debole si icriveva a corsi per segretaria d'azienda o similari che duravano tre anni contro i cinque di quelli sopracitati.
Due furono i provvedimenti che in quegli anni furono diretti a rompere l'ingabbiamento sociale:
a) la riforma della scuola media unificata
b) l'istituzione dell'assegno di studio che ha permesso a molti, a me per esempio, di completare la propria formazione con un diploma di laurea
Altro punto forte della didattica di Barbiana un rapporto tra insegnante e i suoi "allievi" non autoritario ma diretto a sollecitare gli interessi e le curiosità dei giovani da formare. Cinquanta anni fa era un approccio innovativo; personalmente ho sempre ritenuto il migliore degli insegnanti chi si propone di sviluppare curiosità, sollecitare riflessioni, desiderare approfondimenti nelle giovani persone che gli sono affidate. Penso sarebbe la situazione ottimale sia per l'insegnante che per la classe.
Inoltre, a mio avviso, di estrema importanza il principio educativo dell' I CARE"che andrebbe ripreso con forza per far prendere coscienza alle nuove generazioni dell'importanza di avere "cura", "interessarsi" come abito mentale e come elemento connotativo del loro essere cittadini.
Certo l'esperienza di Barbiana appare datata ma è importante, a mio avviso, non dimenticare Don Milani e dei suoi ragazzi anche perché a mio avviso ci sono sempre più numerosi segnali involutivi. Troppi abbandoni scolastici, una formazione civile dei nostri ragazzi non adeguata, un "menefreghismo" montante che destinano il Paese ad un ulteriore declino se non contrastati adeguatamente.
Non pretendo di aver tracciato un ritratto esaustivo di Don Milani ma ricordarlo mi sembrava un dovere perché un Paese si regge sulla memoria e occorre coltivarla, la memoria, per aver senso della propria identità.
Brevissime note biografiche. Nato nel 23 da una famiglia altoborghese agnostica, trovò la sua collocazione esistenziale nel pensiero e nella fede cattolica. Ordinato sacerdote nel '47, esercitò il suo ministero fino al Dicembre 1954 a Calenzano.Entrato progressivamente in frizione con la curia di Firenze, fu trasferito, di fatto per punizione, a Barbiana, sperduta e piccolissima frazione di montagna del comune di Vicchio del Mugello.
E a Barbiana iniziò l'esperienza della scuola popolare a tempo pieno e la redazione collettiva di "Lettere ad una professoressa" che denunciava un sistema scolastico ed un medoto didattico che favorivano l'educazione delle classi ricche e condannavano i figli di operai, contadini e classi subalterne ad un quasi ineluttabile destino di subalternità. Perché, bisogna ricordarlo, fino alla entrata in vigore della riforma della scuola media unificata - nel 63 - la divisione per classi sociali cominciava alle elementari. Coloro che abitavano in campagna frequentavano le multiclassi che non potevano certo offrire standard elevati. Al momento della licenza elementare la biforcazione era evidente. Per "andare alle medie" bisognava fare l'esame di ammissione. Le famiglie meno abbienti non ci pensavano nemmeno: i loro figli andavano "all'avviamento professionale" e ogni altra strada si chiudeva. Chi "faceva l'esame d'ammissione" si trovava al bivio al conseguimento della licenza media inferiore ed anche qui le strade erano abbastanza definite. Borghesia media e alta e figli di professionisti andavano al classico, preferito allo scientifico perché la conoscenza delle civiltà greca e latina veniva considerata superiore, non si sa perché, alla conoscenza della doppia elica del DNA o dei buchi neri. I ceti impiegatizi iscrivevano i loro figli a corsi di studio che dessero la possibilità di avere un diploma spendibile immediatamente sul mercato del lavoro (ragioniere, geometra, perito industriale) mentre una fascia più debole si icriveva a corsi per segretaria d'azienda o similari che duravano tre anni contro i cinque di quelli sopracitati.
Due furono i provvedimenti che in quegli anni furono diretti a rompere l'ingabbiamento sociale:
a) la riforma della scuola media unificata
b) l'istituzione dell'assegno di studio che ha permesso a molti, a me per esempio, di completare la propria formazione con un diploma di laurea
Altro punto forte della didattica di Barbiana un rapporto tra insegnante e i suoi "allievi" non autoritario ma diretto a sollecitare gli interessi e le curiosità dei giovani da formare. Cinquanta anni fa era un approccio innovativo; personalmente ho sempre ritenuto il migliore degli insegnanti chi si propone di sviluppare curiosità, sollecitare riflessioni, desiderare approfondimenti nelle giovani persone che gli sono affidate. Penso sarebbe la situazione ottimale sia per l'insegnante che per la classe.
Inoltre, a mio avviso, di estrema importanza il principio educativo dell' I CARE"che andrebbe ripreso con forza per far prendere coscienza alle nuove generazioni dell'importanza di avere "cura", "interessarsi" come abito mentale e come elemento connotativo del loro essere cittadini.
Certo l'esperienza di Barbiana appare datata ma è importante, a mio avviso, non dimenticare Don Milani e dei suoi ragazzi anche perché a mio avviso ci sono sempre più numerosi segnali involutivi. Troppi abbandoni scolastici, una formazione civile dei nostri ragazzi non adeguata, un "menefreghismo" montante che destinano il Paese ad un ulteriore declino se non contrastati adeguatamente.
Non pretendo di aver tracciato un ritratto esaustivo di Don Milani ma ricordarlo mi sembrava un dovere perché un Paese si regge sulla memoria e occorre coltivarla, la memoria, per aver senso della propria identità.
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