Dopo due mesi di mare in Sicilia, dieci giorni a goderci la casa e, soprattutto, la terrazza, una settimana all'Aprica per il Ferragosto e un'altra settimana a casa, domani si parte per Ostra, mon patelin, come direbbero i francesi, il paese in provincia di Ancona, nell'entroterra di Senigallia, dove sono nato.
Io credo che il bisogno di radici faccia parte delle esigenze primarie di ciascuno di noi. I greci avevano elaborato il concetto di nostos, il ritorno alle proprie origini e alle proprie radici, qualificandolo come esigenza ineludibile di ciascuno. Ebbene, per me il nostos porta ad Ostra e ad Ostra ritrovo le mie radici.
E' tra quelle colline così dolci, tra gli scorci vivi sempre nella memoria e nel ricordo, nel ritrovare la casa dove sono nato, nel rivedere parenti e compagni di scuola di tanti anni fa, nel collegare con il pensiero persone o luoghi o cose a episodi ancora nitidi nel ricordo della mia vita, é tra queste sensazioni che si consuma il ritorno. Utilizzo non a caso il termine consumo perché la sensazione é di qualcosa che lentamente si consuma, probabilmente my life.
Per cercare di far capire a chi mi legge cerco di mettere qualche foto e, soprattutto, riporto qualcosa che ho scritto tempo fa e che é lì, dormiente, da tanto tempo:
"Le colline marchigiane, per chi le vede per la prima volta, danno un senso di struggente languore,appena disegnate come sono,con il loro leggero innalzarsi verso l'interno, con i loro colori tenui, quasi senza alberi, disegnate nei contorni che dividono le proprietà. Manca il verde marcato dell'Umbria, non si trova l'opulenza della campagna toscana,qui tutto é più lieve, più chiaro, più morbido, più accennato, meno definito. E nelle Marche comincia il percorso, in un piccolo paese seduto su una di quelle colline, negli anni e nei mesi della ritrovata speranza dopo i lutti e le angosce della guerra, nella pace serena del borgo ancora non ferito dai rumori invadenti dei motori, con l'aria ancora impregnata dei profumi e degli odori delle stagioni. Gli effluvi intensi delle rose e dei lillà in Maggio, il profumo del grano appena mietuto in estate, il sentore del mosto in autunno, le castagne arrostite in inverno e la presenza del fieno sempre, talora secco,talora appena falciato e sempre l'odore unico del pane appena sfornato. E i grilli in estate di giorno,e le lucciole di notte, e le voci che escono dalle finestre, alcune a spingersi fino alle romanze d'opera più conosciute, e gli artigiani, il ciabattino con i colpi inconfondibili del martello sul cuoio, il fabbro con la bombola di acetilene in funzione, il muratore sempre accompagnato da un manovale con cazzuola e secchio. E il senso della percezione del tempo che scorre, le giornate che sembra non finiscano mai, in estate, ed il ritorno puntuale delle rondini a Marzo e la neve ad accompagnare la messa di mezzanotte a Natale, e il freddo pungente di fine Gennaio.
In quel borgo, ora lontano, quasi estraneo per aver perduto l'innocenza di un tempo, o forse perché l'innocenza l'hanno perduta gli occhi che guardano, l'Italia della seconda metà degli anni quaranta cercava di ritrovare, lì come altrove, il senso del percorso dopo la parentesi populista e la tragedia della guerra. A pensarci bene era la prima volta che nel Paese si respirava l'aria della democrazia, pur nella contrapposizione forte tra coloro che vedevano imminente l'inverarsi del sole dell'avvenire e il mondo che trovava ancora nella chiesa un punto di riferimento non messo in discussione, protettivo e consolatorio come le mamme nei confronti dei loro cuccioli. E in mezzo i "benpensanti", non disposti a confondersi con le masse ma ostili senza tentennamenti ai pericoli, così erano percepiti, che potevano venire dalle novità provenienti da est"...............................
Mentre sto scrivendo ho di sottofondo un bellissimo pezzo di Zucchero: Diamante.
"Delmo, Delmo.............. vieni a Cà, Delmo"
martedì 23 agosto 2011
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