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mercoledì 14 settembre 2016

PATRIZIO LATTANZIO - RADICI

La pubblicazione del post numero 2.000 dedicato ad Ostra, alle mie radici, ha fornito lo spunto all'ex collega ed amico carissimo e stimatissimo Patrizio Lattanzio per inviarmi un suo scritto in cui parla delle "sue"radici. Patrizio è più giovane di me di tre anni ed è in Abruzzo che affondano le origini della sua famiglia ed i suoi riccordi di infanzia. Pubblico lo scritto, dopo avergliene chiesto ovviamente autorizzazione, innanzitutto perché è un bel racconto e perché conferma l'esigenza di ciascuno di noi, soprattutto ad un certo punto della vita, a cercare l'essenza, ad andare al nocciolo di quella unica e irripetibile esperienza che chiamiamo vita.
Patrizio adesso vive in Lussemburgo con sua moglie, ha un figlio che lavora in Cina dopo aver lavorato alcuni anni in Ferrari a Maranello, una figlia che vive e lavora in Francia. Il suo è il tipico esempio di una famiglia internazionale che forse proprio per questo ha "bisogno" più di altre di non perdere le radici.
Cura ut valeas amico mio. Un abbraccio


"Mio nonno materno, Giovanni Colella, ripeteva spesso che la lepre vuole morire dove è nata.

Ero ragazzo quando, negli anni ’60, trascorreva da molto anziano dei periodi di tempo a Roma a casa nostra o a casa di mio zio Gennaro, e a me sembrava strano che, pur in presenza di figli e nipoti amati, non desiderasse altro che di rientrare a casa sua, a Corfinio; anzi, come diceva lui, a Pentima.

Ricordo con affetto quegli anni; si arrivava da Roma in Fiat 600 dopo un viaggio di 4/6 ore, a seconda di quanti camion si incontrassero lungo la Tiburtina Valeria sulle rampe di Tivoli, Colli di Monte Bove e Forca Caruso.

Mio padre, poi, amava guidare di notte ed allora, ogni volta, sveglia alle 3, partenza, piacevole stop all’alba presso un fornaio di Tagliacozzo che serviva una pizza al pomodoro dal gusto squisito.
Più tardi, sosta alla fontana presso il ponte sull’Aterno, sopra Raiano, perché mamma voleva che noi ragazzi arrivassimo in paese dagli zii con il viso ben lavato ed i capelli in ordine.
Dolci ricordi ! Quando mi capita di passare su quel ponte sono sempre incerto se fermarmi o meno a quella fontana, sempre così uguale nel tempo.

Ogni tanto, poi, accadeva di fare il viaggio in treno e per noi ragazzi era un altro balzo nel paese delle meraviglie. La linea Roma – Sulmona, naturalmente a vapore e inaugurata nell’estate del 1888, era costellata di linde e fiorite stazioncine i cui capistazione si facevano un punto d’onore per primeggiare fra loro nel decoro, pulizia ed accoglienza della propria struttura.
Esisteva al riguardo un vero e proprio concorso a premi lanciato dalle Ferrovie dello Stato.
L’improvviso colpo d’occhio sulla Valle che si riceveva uscendo dalla lunga galleria di Goriano Sicoli, il caratteristico tunnel traforato attraversato prima di percorrere il lungo viadotto sul Sagittario, erano per tutti i viaggiatori un’emozione viva.

Tutto ciò oggi sembra assurdo; il progresso economico, le autostrade, il clima hanno cambiato drasticamente l’ambiente, il paesaggio, le persone.

Quando si arrivava a Corfinio, specie d’inverno, l’aria aveva, come dire, un profumo di paese impregnato del buon odore dei camini che si sposava a meraviglia con la vista degli uomini che, soprattutto la domenica e i giorni di festa, se ne stavano in piazza, a gruppi, avvolti nei tabarri neri, fumando sigari o trinciato di Alfa nelle loro pipe e lanciando a intervalli regolari, a causa di quel tabacco di pessima qualità, lunghi getti di saliva.

In primavera, poi, quando la fioritura delle vigne era minacciata da pericolose gelate, la piazza si riempiva di una varietà di strane stufe che servivano, credo, una volta trasportate in campagna a creare uno strato di fumo denso utile a proteggere le piante dal gelo.
Sistemi antichi, oggi scomparsi, che rivelano l’ingegno di tante persone che ci hanno preceduto, così come ciò che si faceva un tempo a Popoli per proteggere dal gelo negli orti le verdure invernali, inondando i campi con l’acqua dell’Aterno/Pescara con quella pratica del “calidare” che, facendo scorrere l’acqua in lento movimento, impediva la formazione dei cristalli di ghiaccio all’interno dei fusti delle piante.

Diversamente da mio fratello non sono nato a Corfinio, ma mamma era di Corfinio e babbo di Popoli; di conseguenza mi sono sempre considerato uno della Valle.

Il mio lavoro mi ha portato a vivere in tante città, in Italia e all’estero, ma sento sempre vivo il desiderio di respirare almeno una volta l’anno l’aria di queste contrade senza peraltro dimenticare o sottostimare il grande valore, le meravigliose esperienze vissute in altri luoghi, città e nazioni dove il desiderio di conoscere,  imparare e quindi  migliorare ci ha condotto.

Forse siamo proprio come la lepre di cui parlava nonno Giovanni.

Frantumare fra le mani la terra dei campi sotto il lavatoio Galli Zugaro dove, da ragazzo, insieme a mio zio Alessandro ho raccolto pomodori, peperoni, uva; osservare un’attuale civile abitazione in via Valva e ricordarla come quando era la stalla della casa materna dove, un 6 gennaio di tanti anni fa aiutai (per modo di dire perché avevo 9/10 anni) a far nascere un bellissimo vitello al quale, vista la data, venne imposto il nome di Epifanio, sono sensazioni dolci e amare che hanno il sapore della vita.

E’ bello rivedere i nostri monti, i nostri fiumi, gli stessi paesaggi che hanno accompagnato la vita dei nostri avi, vicini ed anche molto molto lontani; in quei momenti di meditazione e di riflessione sembra che essi non siano in effetti così distanti.

Mio figlio Mattia ride di gusto quando ogni tanto gli dico, un po’ per celia e un po’ sul serio, che passeggiando per le vie di Corfinio e di Popoli mi sembra di incontrare dei visi familiari, non solo degli zii e dei nonni dei quali ovviamente ricordo bene le fattezze, ma anche di bisavoli, trisavoli e arcavoli sconosciuti che sembra mi dicano: anche noi abbiamo vissuto in questi bei luoghi, abbiamo gioito ed abbiamo sofferto e siamo felici a nostra volta di incontrarti e di capire che il nostro amore per queste terre non è finito con noi.

Terre bellissime che, però, hanno pagato dazi pesanti alle crisi economiche ed alle guerre; nei decenni a cavallo del 1900 anche tanti dei nostri paesani dovettero prendere la dura decisione di emigrare.
Decisione durissima perché legata alla motivazione che ne è alla base; se si emigra di propria volontà per andare a cogliere nuove opportunità di vita e di lavoro tutto è molto bello e facile; se si emigra per fame almeno la prima generazione vive certamente una vita d’inferno.

Non posso dimenticare, a questo riguardo, diversi viaggi in treno nei primi anni ’80, fra Roma e Lussemburgo, allora mia sede di lavoro bancario, dove incontravo regolarmente degli italiani anziani che, dopo una visita al loro paese di origine, rientravano in Belgio dove avevano trascorso una dura vita lavorando per gran parte nelle miniere e nelle fonderie della regione.

A me, “emigrante di lusso”, piaceva parlare con loro; erano uomini e donne fuori dal tempo che avevano vissuto la loro esperienza di vita e di lavoro chiusi a riccio nel loro nuovo ambiente, e che nelle loro abitudini di linguaggio, di abbigliamento e di comportamento, erano rimasti fermi al tempo della loro emigrazione, rifiutando per difesa mentale qualsiasi evoluzione personale e culturale.

Uomini e donne immobili, stranieri anche in Patria.

In un mondo nel quale oggi parlo con mio figlio in Cina in tempo reale, ricordo quanto mi raccontava mio padre delle molte partenze, nei suoi anni giovanili, di membri di famiglie di Popoli per le Americhe (come si diceva una volta).

Si trattava di scene perfettamente assimilabili ad una cerimonia funebre, dove persone che si amavano, si dicevano addio abbracciandosi e piangendo sapendo, con ogni probabilità, di mai più rivedersi e dove anche l’attesa di una lettera poteva durare mesi.

A rendere più penosa questa nostra emigrazione contribuiva anche la destinazione scelta dalle nostre genti, in gran parte America del Nord ed America del Sud, contrariamente a quanto accadeva per molti italiani delle regioni settentrionali che privilegiavano, per lo più, una emigrazione stagionale in alcuni Paesi d’Europa.

Come succede nelle scelte imponderabili del caso, anche mio fratello ed io, e quindi anche la mia progenie, dobbiamo la vita ad una scelta, ad una decisione altrui, così come accade comunque per almeno altri 7 miliardi di persone, senza contare i precedenti.

Nostro nonno paterno, Bonifacio, partì per le Americhe con suo fratello Francesco con uno dei tanti vapori che salpavano da Napoli, subì la trafila di Ellis Island e visse per qualche anno a New York.

Per inciso, oggi sul web è possibile rintracciare date, nomi dei vapori e nomi dei viaggiatori risultanti dagli archivi americani.

L’amore però per Maria Carmine fu più forte e, contrariamente a suo fratello rimasto negli States e mai più rientrato, tornò a Popoli.

Certamente questo gli comportò la partecipazione alla guerra di Libia nel 1911 ed all’intera Grande Guerra nei ranghi dell’8° Reggimento Alpini, Battaglione Cividale; combatté in trincea nelle 11 battaglie dell’Isonzo e soprattutto in quelle per la conquista della testa di ponte austriaca di Tolmino, nome che fu imposto in ricordo a mio padre nato appunto nel novembre del 1915.

Decisamente sfortunato fu invece in quella circostanza Casimiro, fratello minore del nonno materno Giovanni.

Ragazzo del ’99 fece parte dell’ultimo scaglione richiamato a combattere dopo la disfatta di Caporetto.

Aveva solo 18 anni, arrivato sulla  linea del fuoco il 17 novembre 1917, scomparve lo stesso giorno; il suo nome, oggi, fa compagnia a quelli degli altri Caduti sul monumento in Piazza.

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Vite di persone care, di parenti, di paesani e sconosciuti fuse insieme in una nuvola di ricordi da cui ogni contemporaneo può attingere o aggiungere, come fossero ombre vaganti, attimi piacevoli, ricordi di amicizie, di calore umano e di dolori pungenti. Una nuvola chiamata Corfinio.

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Il nostro borgo gravita naturalmente su Sulmona, centro economico e culturale della Valle; sono infatti ormai solo nell’archivio della storia le rivalità secolari fra i Capitoli di San Panfilo e di San Pelino.

E’ casa nostra, è casa mia; non per nulla questo suggestivo verso ovidiano appare nell’ ”ex libris” che appongo sui miei libri : “Sulmo mihi patria est gelidis uberrimus undis”.

Patrizio Lattanzio"
 

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